L’intervista a cura di Berta Corvi allo scrittore Philippe Vilain che nel suo ultimo romanzo “Napoli Mille colori” racconta il suo particolare legame alla città partenopea.
1) Napoli è una città “terribilmente bella”. Ne sei rimasto affascinato a tal punto che hai deciso di viverci e anche di scrivere un libro. Mille couleurs de Naples (Mille colori di Napoli), uscito nello scorso mese di agosto, è un omaggio alla città. Quando e come è avvenuto questo famoso colpo di fulmine?
Mi sono innamorato di Napoli un giorno di luglio 1994, ormai 26 anni fa. Non sono stato stregato solo dalla sua spettacolare bellezza, dai suoi colori e dalla sua musica, meglio: mi sono sentito a casa lì, tra la mia gente. Mi sembra di essere nato a Napoli in quei vicoli canori dove ho riconosciuto il calore, la solidarietà e la semplicità della sua gente, le figure della mia infanzia popolare.
2) Quali sono le qualità di Napoli che non riconosci in altre città? È difficile abituarsi a vivere in una città così sorprendente e complessa?
“Complessa”, a dire il vero, non so cosa significhi questo termine. Se questo termine evidenzia la pericolosità della città, allora sappiamo che la città italiana con il più alto tasso di criminalità è Milano, e se questo termine si riferisce alla Camorra, allora sappiamo anche che la mafia non è limitata al territorio campano, e che è un problema purtroppo a livello mondiale. Personalmente, per esempio, non ho mai avuto problemi di questo tipo. Bisogna stare attenti a non ridurre Napoli a rappresentazioni fuorvianti, a pregiudizi, perché nessuna città, né alcuno, ha l’esclusiva del Bene o del Male. Napoli non è una città come le altre perché non cerca di compiacere e mostra il suo splendore nel suo stato naturale, senza alcuna affettazione urbana, senza sottomettersi culturalmente all’ordine globalizzato: Napoli conserva la sua autenticità, la sua identità, anche il suo orgoglio. È un luogo dove vivere, un museo a cielo aperto, non certo una città-museo asettica e noiosa.
3) Il Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron, riprende la famosa frase di Stendhal, secondo la quale Parigi e Napoli sono le due capitali d’Europa, e Napoli la città più bella del mondo. Secondo te, qual è il legame esistente tra Napoli e Parigi?
Condivido questa ammirazione per queste due città morfologicamente eccezionali ed effervescenti, tuttavia entrambe mi sembrano diametralmente opposte per natura e cultura: Parigi è una città iper-sociale, stavo addirittura per dire socialmente violenta, popolata per lo più da provinciali che sono venuti qui per fare carriera o fortuna, è una città dell’apparire dove bisogna avere successo e acquisire uno status per essere considerati. Mentre Napoli è una città dell’essere, della passione e del divertimento, dove non si viene per costruirsi una carriera, ma dove tutti sono considerati, dove molti quartieri, e gli stessi edifici, fanno convivere gente borghese-benestante e persone modeste. Parigi è una capitale amministrativa, Napoli una capitale simbolica dell’umanità. È completamente diverso.
4) “Teoricamente non è possibile, ma…”, e poi le cose finiscono per accadere senza inutili formalità. Come si riassume in questa frase l’adattabilità dei napoletani?
Ciò che caratterizza i napoletani è, infatti, la loro flessibilità di spirito, la loro capacità di arrangiarsi, di adattarsi. A noi che, privilegiati, ci lamentiamo continuamente dei piccoli problemi della vita quotidiana, a noi che ci deprimiamo per tutto, i napoletani ci danno una tremenda lezione di saggezza: non ci sono problemi che non abbiano le loro soluzioni.
5) La Camorra, questa invisibile eppure invasiva e incontrollata associazione di malfattori, esercita un’azione dannosa nella regione e danneggia i napoletani che devono prendersi la colpa per i suoi misfatti. Cosa pensano in genere i napoletani dei mafiosi che mandano in cancrena la loro città?
È un argomento tanto appassionante quanto complesso. Innanzitutto è difficile generalizzare sulla Camorra, perché questa organizzazione tentacolare è mutata negli ultimi anni segmentandosi troppo per essere mappata: le bande, sempre più giovani e incontrollabili, si sono moltiplicate, in spregio alle grandi famiglie camorriste che regnavano facendola da padroni, con i loro codici d’onore, sulla città. In secondo luogo, è un’organizzazione invisibile di cui i forestieri della cittàparlano senza averne mai avuto a che fare, e di cui i napoletani parlano poco: la Camorra si presenta così come un discorso fantasmatico, una leggenda alimentata dalle nostre stesse paure e dalle nostre false credenze, di cui tutti amano diffondere la voce senza averne alcuna esperienza. Soprattutto, mi sembra molto ingiusto ridurre una città come Napoli a questo discorso, come fa il giornalista Roberto Saviano nei suoi romanzi: Parigi viene forse ridotta ai problemi della delinquenza nei suoi quartieri difficili? Non si rende giustizia a una città così piena di umanità come Napoli per ridurla alla sua mafia, da un lato perché le mafie sono un problema mondiale (perché, quando si parla del Giappone, non lo si riduce mai alla sua mafia di Yakuza, che è considerata la più importante al mondo?); d’altra parte, perché le mafie, al di là della violenza che impongono, occupano una funzione sociale e salutare nelle città dove la disoccupazione è alta, i cui abitanti possono sentirsi giustamente abbandonati dal proprio stato. Non dimentichiamo che, in origine, la mafia, società onorata, nasce dal desiderio di ridistribuire la ricchezza (dà lavoro e nutre la gente) e che successivamente diventa corrotta, come la maggior parte degli ambienti sociali, raggruppamento di uomini, dove sono in gioco conflitti di interesse. Esistono mafie in una società perfettamente giusta ed equa? Le mafie sono soprattutto malattie dello Stato, le conseguenze della sua impotenza. È inutile voler sradicare la mafia senza voler sradicare la società delle ingiustizie: la prima è la conseguenza della seconda.
6) I napoletani sono attori e le strade sono tutte scene: Napoli è la città teatrale per eccellenza. Cos’è, secondo te, la teatralità a Napoli?
Non è un caso che Ettore Scola abbia reclutato le sue comparse a Napoli. I napoletani sono teatrali perché sono naturali e spontanei, proprio perché non recitano – segreto dei grandi attori. I figli di Pulcinella, Totò e Massimo Troisi diventano così personaggi, trovatori e narratori, mercanti, venditori ambulanti che improvvisano sketchs per vendere calze (per attirare l’attenzione, i venditori lusingano il turista chiamandolo con il nome di una star – “Come stai Richard Gere?”, “Tutto a posto Sofia Loren?” -, o, se non risponde, provoca la sua reazione con una “sei arrabbiata?, o ancora, se è una donna con poca voglia di comprare: “Vita mia, mi dai una sigaretta?”). Succede sempre qualcosa con loro; il gioco della vita si gioca senza accademismi o diplomi, sempre con il sorriso. I napoletani improvvisano persino i matrimoni per strada, fermando il traffico. Molto è stato detto anche di quell’avvocato in pensione che, dal suo balcone, ha chiamato il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che, in visita a Napoli, era lui stesso sul balcone di un palazzo vicino. Una scena incredibile, tratta da un film burlesco: in mutande, l’avvocato lo chiama per fargli una richiesta: la traduzione in legge di un decreto d’urgenza di un disegno di legge, il n° 788 del 2018, relativo al recupero dei crediti in sofferenza e a favorire e accelerare il ritorno in bonis del debitore ceduto. Giuseppe Conte ha promesso di approfondire la questione. “Non volevo perdere l’occasione, ha detto l’avvocato. Se mi fossi cambiato, avrei perso tempo. Se questa legge sarà promulgata, sarà la legge delle mutande.”
7) “In ogni caso, io penso che Napoli sia l’ultima speranza dell’umanità”. Con questa frase termina il famoso film Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo nel 1984.
È una frase piena di umanità che esprime, meglio di ogni altra cosa, l’essenza stessa del popolo napoletano. Forse è necessario avere l’esperienza di Napoli per cogliere il vero significato di queste parole di Luciano de Crescenzo. Dal canto mio, che ho viaggiato molto in giro per il mondo, ritengo che sia la città dove incontro più umanità, meno individualismo e indifferenza. È per questo motivo che mi ribello alle facili riduzioni, alle scorciatoie che associano Napoli alla violenza camorrista: questa città è soprattutto una città d’amore. I napoletani ci insegnano a rivedere i nostri pregiudizi anche se, fatalisti e orgogliosi come sono, non faranno mai nulla per farvi cambiare opinione: se pensate che siano ladri, allora ve lo lasceranno credere; se non percepite la loro umanità, allora siete voi a non meritarli!
8) Non posso realizzare questa intervista senza fare cenno alla tua passione per il calcio. Come identifichi il gioco della squadra del Napoli ai tempi di Maradona e quello dell’attuale squadra di Gattuso? Ti sarebbe piaciuto avere un faccia a faccia con Maradona? Una sola frase per definire il calcio e la letteratura, le tue due grandi passioni!
Ci vorrebbe troppo tempo per tentare un confronto con il Napoli di allora e quello di oggi, perché i tempi sono cambiati e il calcio di oggi è totalmente diverso: negli anni ’80 il calcio era basato sul palleggio e sull’abilità gestuale dei singoli, mentre ai tempi nostri prevale un calcio di fisicità fatto di statistiche e redditività. Ma il Bel calcio, basato sul palleggio e sull’abilità gestuale dei singoli, possiede in sé una memoria superiore. Il calcio ha perso di passionalità, tranne a Napoli, dove la passione è rimasta intatta. Non passa giorno senza che si senta parlare del Calcio o del Napoli, senza che si veda un bambino che gioca per strada, senza che si veda una maglia con il nome di Maradona, l’icona assoluta di questa città. La fedeltà dei napoletani a Maradona, a trent’anni dalle sue imprese, è eccezionale: è la prova della loro generosità e della loro grandezza. Bisogna vedere il fervore con cui è stato accolto a Napoli quando è stato presentato ai tifosi o quando vinse lo scudetto: “Non sapete che vi siete persi…” avevano scritto i tifosi di Napoli sul muro del cimitero della città, indirizzato ai Morti per svegliarli e renderli partecipi di quell’evento.
Più di ogni altra cosa, nel calcio, ho amato i grandi numeri 10, i maestri: Susic, Socrates, Platini, Zico, Zidane e Maradona, la cui personalità mi ha molto emozionato. Più di tutti gli altri, Maradona ha saputo riconciliare la gente con lo sport. Maradona, che si è rifiutato di scrivere l’importo su un assegno in bianco offertogli dall’avvocato Agnelli, il presidente della Juventus, ha lasciato il grande Barcellona per il Napoli, società allora ai limiti della serie B. Vi immaginate Messi o Ronaldo che oggi rischierebbero, sportivamente parlando, firmando un contratto ad esempio, con il Brescia? No. I giocatori forti vanno nei club forti, il valore che si aggiunge al valore. Incontrare Maradona sarebbe stato un sogno!
Definire le mie due passioni in una sola frase? Oggi mi interessa più il calcio che la letteratura, perché è più giusto, e premia il duro lavoro e il talento. Non si può imbrogliare per raggiungere e mantenere un alto livello nello sport, sono semplicemente i migliori, i più professionali e competenti ad avere successo; questo non è il caso della letteratura, dove dominano i dilettanti e i più abili a creare le proprie reti commerciali e di vendita.
9) Goethe celebra la bellezza, il cuore e l’anima di Napoli con una frase: “Vedi Napoli e poi muori!”. Il messaggio che ha voluto inviare all’umanità con il suo aforisma è semplice: tutti devono vedere Napoli almeno una volta nella vita. Percepisci anche tu la città sotto il Vesuvio come una sorta di ultima cosa da vedere?
Napule è a’ fin ro’ munn, Napoli è la fine del mondo. I napoletani non hanno formula migliore per esprimere la bellezza della loro città o l’umanità di una persona, che esprimerla attraverso l’ultima impressione che provoca, la sensazione della sua apocalisse: la fine del mondo. Napoli non è bella, è la fine del mondo.
10) Quali piatti della tradizione napoletana non devono mai mancare sulla tavola di Philippe Vilain?
Gli spaghetti vongole e la loro variante sottile, gli spaghetti vongole fuuite, conditi con gli stessi ingredienti, ma senza le vongole (in napoletano: spaghetti cu’e vongole fujute). C’è una metafisica geniale della cucina napoletana nell’espressione “fuuite “: le vongole sono nominate, tuttavia sono assenti dagli spaghetti, sono fuuite, sono scappate; sono lì senza essere lì, sono spaghetti alle vongole senza vongole; la loro assenza segnala la loro presenza con il ricordo del loro sapore. Tutta la genialità dei napoletani è lì, nella loro capacità di ricorrere ad ingegnosi espedienti sublimando la privazione.